Il design è (anche) donna – una storia tra passi avanti e passi indietro

Nadia Bendinelli
10. janvier 2023
Sguardo sulla mostra «The Bigger Picture: Design – Frauen – Gesellschaft» al Gewerbemuseum Winterthur. (Foto: berndgrundmann.com)

È inutile negarlo: pensando ai nomi dei designer apparsi sulla scena negli ultimi 120 anni, si contano davvero poche donne. Ma è davvero così? In quale contesto operavano, e cosa ha contribuito a relegarle all’anonimato? La mostra dal titolo «The Bigger Picture: Design – Donne – Società», partita dal Vitra Museum e ora adattata e ampliata per il Gewerbemuseum di Winterthur, intende proporre una base su cui discutere e riflettere, più che rispondere in modo esaustivo a queste domande.

Tra i collaboratori del Vitra Museum, l’idea di allestire questa mostra è maturata da una presa di coscienza e una conseguente autocritica: già, perché è proprio la loro prestigiosa collezione a rappresentare uno squilibrio. In passato si collezionava e si documentava orientandosi al mondo maschile. Forse non con intenti discriminatori ma, come spesso accadeva, senza considerare altre possibilità. Oggi si è più attenti alle parità e, anche a causa di un’opinione pubblica molto sensibile all’argomento, non ci si può più permettere di ignorare allegramente l’altra metà del cielo. Ed è proprio così che inizia l’esposizione: una panoramica sui movimenti politici per il diritto al voto e alle pari opportunità rende attenti al lavoro svolto per diffondere un nuovo tipo di pensiero.

Suffragette, simboli e idee innovative

La cronologia della mostra permette di capire il contesto sociale in cui operavano le donne architetto, le designer, le grafiche e le insegnanti delle arti applicate a partire dal 1900. La situazione attuale è molto migliorata rispetto ad allora, ma in questo lasso di tempo appaiono evidenti anche i periodi di regressione e i cliché che in parte ci accompagnano ancora oggi. 

Già le suffragette come Emmeline Pethick-Lawrence avevano capito l’importanza di una comunicazione visiva ben concepita. Nel 1908, per rappresentare il movimento «Votes for Women», scelse tre colori simbolo: viola per la dignità, verde per la speranza e bianco per la purezza. Le attiviste decisero inoltre di indossare vestiti bianchi perché apparivano con evidenza sulle fotografie in bianco e nero ed erano facili da reperire per le donne di tutti i ceti. I movimenti contrari al suffragio femminile preferivano far leva sugli stereotipi, mostrando immagini di battipanni e simili.

Cartellone pubblicitario appeso alla mostra. (Foto: Nadia Bendinelli)

Uno stigma sociale dell’epoca riteneva la donna incapace di pensare in termini di spazio. Questa credenza è sopravvissuta fino ad oggi: c’è ancora chi la usa per spiegare «l’incapacità delle donne di guidare un’automobile» e quant’altro. Pensieri come questo hanno impedito per molto tempo l’accesso alle facoltà di architettura. Appena eliminato questo ostacolo, le prime diplomate si sentirono quindi particolarmente motivate a sviluppare progetti importanti e del tutto nuovi. Lux Guyer fu una delle prime ad aprire un proprio studio in Svizzera. Il suo approccio era ambizioso: voleva cambiare il modo di abitare, considerando che la società non era costituita solo dal modello classico di famiglia, ma anche da donne indipendenti. Nel 1926/27 progettò quindi degli appartamenti adatti a loro (Wohnkolonie für alleinstehende Frauen), su commissione della Frauenzentrale di Zurigo. Tra i suoi lavori troviamo anche la Casa per studentesse (Studentinnenheim Fluntern, 1927/28). Fu inoltre l’architetto responsabile della prima edizione della SAFFA a Berna, nel 1928.

La SAFFA, ossia l’esposizione svizzera del lavoro femminile, fu organizzata nel 1928 e nel 1958. Il carattere di questa esposizione era però del tutto ambivalente: se da un lato intendeva promuovere l’importanza del lavoro svolto dalle donne, dall’altra alimentava gli stereotipi proponendo occupazioni ritenute prettamente femminili.

Anche le riviste femminili degli anni trenta iniziarono a proporre sempre più argomenti politici, nonostante i temi principali ruotassero attorno all’educazione dei figli, all’economia domestica e ai consigli per la moda. L’attivismo politico riuscì a dare visibilità alle donne e contribuì in modo incisivo a migliorare la loro condizione.

Scuole d’arte applicata e atelier dal 1900 al 1930

Tra gli esempi prominenti non poteva mancare il Bauhaus. Anche qui si adottavano due pesi e due misure: seppur uomini e donne studiassero nello stesso istituto, non potevano accedere agli stessi corsi di studio. Nonostante alcune istituzioni non funzionassero in modo paritario, questo fu un periodo di innovazioni, progetti fuori dal comune e consistenti passi avanti per le donne impegnate nelle arti applicate. È il caso dell’americana Louise Brigham, pioniera del mobile fai-da-te e autrice del libro «Box furniture», una guida contenente un centinaio di mobili da realizzare da soli con materiale riciclato, pubblicata nel 1909. Si trattava di aiutare le persone in condizioni precarie, un’idea che oggi verrebbe classificata alla voce social design. 

Attorno agli anni cinquanta, le scuole e gli atelier per le arti applicate si impegnavano a offrire un’alternativa alla produzione di massa, promuovendo prodotti creati dall’unione di arte e artigianato, per soddisfare le esigenze più elevate riguardo alla qualità e alla creatività. Molte donne hanno insegnato e lavorato in queste scuole e atelier, alcune vennero nominate come ideatrici dei loro progetti – un’importante novità per l’epoca.

Vita al Bauhaus: foto di gruppo con tessitrici dietro a un telaio, nell’atelier del Bauhaus a Dessau, 1928. (Foto: autore sconosciuto © Bauhaus-Archiv, Berlin)
Gunta Stölzl (1897–1983). Fu la prima donna che a partire dal 1927 assunse la direzione del laboratorio di tessitura del Bauhaus. Nel 1931 emigrò in Svizzera e diventò co-fondatrice dell’azienda di tessitura a mano (Handweberei) S-P-H-Stoffe. Nel 1937 ne assunse la gestione da sola, e cambiò il nome in Handweberei Flora. (Foto: © Nachlass Gunta Stölzl)
Mobili famosi

Il successivo spazio espositivo propone una selezione di mobili iconici della collezione Vitra. Alcuni di questi furono per molto tempo attribuiti agli uomini, partner di lavoro, di vita o superiori delle reali inventrici. Questo anche a causa di impedimenti di tipo pratico: alle donne non era infatti consentito firmare un contratto per brevettare i propri mobili. Le loro opere venivano perciò prese in consegna e quindi tributate al rispettivo partner. Tra i tanti esempi troviamo Flora Steiger-Crawford, prima donna diplomata in architettura al Politecnico di Zurigo. La sedia impilabile, un’innovazione tecnologica progettata nel 1932, fu ufficialmente brevettata dal marito, suo partner anche nel lavoro. Con il tempo Steiger-Crawford scelse di abbandonare l’architettura per la scultura, si suppone a causa dell’avversione dimostrata dai suoi contemporanei per questo suo ruolo «maschile». Un caso forse più conosciuto è quello della nota designer tedesca Lilly Reich. Alcuni suoi mobili furono a lungo attribuiti al suo partner Mies van der Rohe. Per molto tempo si è dibattuto sulla paternità intellettuale di queste creazioni, su cui ancora oggi sussistono disaccordi. Pubblicazioni più recenti ricollegano però questi progetti alla Reich.

Sguardo sulla mostra con mobili della collezione Vitra. (Foto: berndgrundmann.com)
L’architetta e designer francese Charlotte Perriand (1903–1999) sulla Chaise longue basculante, 1929. Una collaborazione tra Le Corbusier, Charlotte Perriand e Pierre Jeanneret. (Foto: © 2022, ProLitteris, Zurich; Le Corbusier: F.L.C./2022, ProLitteris, Zurich)

Una parete rossa introduce il prossimo capitolo, illustrando le attività dei movimenti femministi tra il dopoguerra e la fine degli anni ottanta. La situazione politica, i movimenti per promuovere la libera scelta del lavoro e le pari opportunità testimoniano di una società che, in particolare attorno agli anni sessanta, perse una parte degli obiettivi raggiunti con tanta fatica nel primo trentennio del novecento. All’edizione del 1958 della SAFFA si parlava nuovamente di occupazioni tipicamente femminili, ancora una volta ritenute più adatte. Per contrastare questo «ritorno al passato» si combatteva per ottenere parità e diritto di voto. Alcune designer del tempo lavoravano nell’ombra e vennero scoperte, riconosciute e anche premiate tempo dopo – o addirittura postume – per i loro mobili e oggetti di design, oggi considerati iconici. 

Nonostante il vento a sfavore, troviamo anche qui esempi di donne emergenti: non mancano infatti le imprenditrici, impegnate per esempio nella produzione dei mobili concepiti dalle celebrità, nel ruolo di direttrici di studi di design o come direttrici artistiche. 

Un capitolo interessante è dedicato alle coppie di designer famose, dove la donna, nell’immaginario collettivo, è considerata oggi alla pari del marito. In merito, si possono guardare delle interviste a Trix Haussmann e a Lella Vignelli. Nonostante il grande successo ottenuto, emerge anche la mancata considerazione per il loro lavoro, se non addirittura il rifiuto. Lella Vignelli dovette spesso fare i conti con partner commerciali che non intendevano discutere di affari con lei, o con i media che la ignoravano completamente. Preferivano concentrarsi sul marito Massimo, che dal canto suo rimaneva indignato da questa discriminazione sessuale rivolta alle donne architetto, sottolineando però la forza di Lella nell’affrontare la situazione. 

Non tutte le creative del passato hanno subito gravi svantaggi. Chi ha avuto maggiori opportunità, ha anche saputo sfruttarle. Elisabeth Feller, appena ventunenne, dopo la morte del padre assunse la direzione della Feller AG, nota in particolare per i suoi interruttori elettrici presenti in quasi ogni abitazione svizzera. Oltre a dirigere e sviluppare la sua impresa, Elisabeth Feller si impegnò per la parità di salario, il diritto di voto e per il riconoscimento della donna nella vita pubblica.

Christien Meindertsma (*1980) con la sua pluripremiata Flax Chair, 2015. La designer olandese ha sviluppato, in collaborazione con varie aziende, un nuovo materiale partendo dal lino. (Foto: © Studio Aandacht)
Situazione attuale

Per concludere, l’esposizione dedica un ampio spazio all’attualità. Cosa stanno facendo le donne di oggi e che tipo di progetti sviluppano? Tra gli esempi esposti spiccano molti lavori di ricerca abbinati al design in cui non sembrano più esserci differenze nell’operato, e soprattutto nella considerazione del lavoro delle donne a confronto con gli uomini.

Come accennato all’inizio, l’esposizione vuole essere uno strumento di discussione. Si propone di illustrare, con esempi scelti da una più ampia panoramica, come le donne designer abbiano scelto di affrontare le avversità tramite il loro operato. C’è chi ha combattuto, chi ha preferito cambiare occupazione, chi si è sentita maltrattata e chi se n’è infischiata di tutto continuando a seguire la propria strada. Non si tratta di giudicare ma di rendersi conto delle varie realtà. 

Per il Vitra Museum è stato un momento di riflessione e di autocritica. Per il Gewerbemuseum occorre guardare all’oggi e al futuro e scegliere la direzione giusta. Probabilmente ogni visitatore avrà in merito un’opinione del tutto personale, sia riguardo al passato che alla situazione attuale. È però importante ricordare che i passi avanti sono stati davvero enormi – questo grazie a molte donne e a molti uomini che si sono impegnati con passione e coraggio. Sarebbe del tutto sbagliato affermare che il mondo del lavoro sia ormai privo di avversità, ma è anche vero che le difficoltà attuali non sono gravose come un tempo – e se così fosse ci sono leggi, etica e opinione pubblica a contrastarle. Rimane a noi la scelta di come affrontarle: voglio essere una vittima o agire per cambiare la situazione?

La mostra «The Bigger Picture: Design – Frauen – Gesellschaft» al Gewerbemuseum di Winterthur si può visitare fino al 14 maggio 2023. Lasciarsi ispirare dalla storia vale sempre la pena!

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